Man manu ca passunu i jonna

Nico Morabito
3 min readMay 18, 2021

Ci sono artisti senza i quali le nostre vite sarebbero diverse. Per alcuni di noi, per me, questo artista si chiama Franco Battiato. Io non lo sapevo, l’ho capito un giorno del 2013. Per tutto l’inverno Parigi era stata tappezzata da manifesti (“Battiato à l’Olympia”) e, a pochi giorni da quel concerto, lessi sul Monde un ritratto di “questo cantante i cui vinili si possono trovare nei negozi più fighi di New York, Montréal o Glasgow” e che viene dalla Sicilia, “île palimpseste d’influences grecques, arabes, normandes, espagnoles”, una sorta di madre “avec laquelle il s’est réconcilié sur le tard”.

Dalla periferia della periferia dell’impero ho passato l’adolescenza a vergognarmi delle vocali troppo aperte, delle violenze, di come ogni cosa accecata di eccessi mi avesse plasmato in un modo che credevo irreparabile. Guardavo verso l’alto, come tutti i provinciali, e invidiavo voi che avevate De André, Paoli, Guccini, Gaber, Jannacci, De Gregori, Dalla, le grandi interpreti, la scuola romana, il grande pop, il grande rock, qualsiasi cosa. E noi, noi chi avevamo?

Il 18 febbraio del 2011 a Sanremo è la serata dei duetti. Sul palco ci sono Luca Madonia e Carmen Consoli, Catania uno e Catania l’altra, raggianti tutti. A un certo punto dall’inquadratura si intravede una sagoma maschile, scura; immobile. La regia torna su Madonia e Consoli, compare la scritta in sovrimpressione del televoto, finché vediamo la sagoma muoversi e avanzare verso il microfono: le cuffie, l’andamento ieratico; la grazia, l’eleganza. Canta un pugno di parole (“Vivo, nei panni di un alieno che non vola/ Che non mi assomiglia ma io vivo / Ai margini di una vita vera e non mi riconosco”), poi va a sedersi al pianoforte e termina l’esibizione; sorride. Ecco chi avevamo: avevamo i Denovo, Mario Venuti, Luca Madonia, Carmen Consoli, Giuni Russo; avevamo Alice, Milva e Giusto Pio, come se fossero nostri; avevamo Franco Battiato.

Come a tutti, nella vita mi è capitato di odiare. Qualche lustro fa, una persona che odiavo aveva un’abitudine: ogni volta che mi incontrava iniziava a cantare, storpiandole, queste parole: “Man manu ca passunu i jonna ‘sta frevi mi trasi ‘nda llossa”. Non conoscevo quella canzone, ma la odiavo, perché la cantava la persona che odiavo. Malgrado il testo, non si trattava certamente di una dichiarazione sentimentale, ma di una presa in giro, nel modo che hanno le prese in giro di curarsi solo dell’obiettivo che vogliono colpire.

E infatti io odiavo questa persona, la odiavo per come insisteva sulla cadenza catanese quando recitava quel verso, per fare il verso al cantante catanese che non sapevo ancora chi fosse, e per fare il verso a me, che per metà ero di padre catanese. Una metà senza contorni eppure perfettamente a fuoco, una metà che irrompeva e poi si ritraeva, sbattendo e sbattendo nei pensieri, neri come la pietra lavica, come la morte. Da qualunque punto io guardassi (“i luccettuli, ‘a litturina, ‘a ciccumetnea”), io rimanevo sempre e comunque a Occidente, a Palermo, e la persona che odiavo lo sapeva, e usava quel verso per allontanarmi da lì, da qui, da ogni mia appartenenza, semmai ce ne fosse stata una.

Ma non sapeva che mi stava facendo un favore, mi stava regalando il momento in cui, tempo dopo, avrei finalmente riconosciuto e finalmente amato Stranizza d’amuri, il momento in cui quei versi mi avrebbero sorpreso nel bel mezzo di altri pensieri (“Mi veni ‘na scossa ‘ndo cori/ ‘Ccu tuttu ca fora si mori”), il momento in cui avrei capito che non c’è proprio un bel niente di cui vergognarsi perché niente è irreparabile, il momento in cui, sur le tard, mi sarei riconciliato con queste, e parecchie altre cose.

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Nico Morabito

Parigi e Palermo. Autore e sceneggiatore. Le Favolose (Venezia 22), La dernière séance (Queer Lion, Venezia 21), Fuori Tutto (best doc italiano, Torino 19)