Dove andiamo adesso?

Nico Morabito
5 min readJun 23, 2023

Parigi, Bari, la corsa, un matrimonio, Genova, il cantante Liberato, Napoli di suolo e di cuore

Nervi, giugno 2023

Una decina di giorni fa la farmacista del 15ème mi ha detto La trovo già molto abbronzato. Non era un rimprovero, ma lo sembrava. Un italiano medio avrebbe chiamato subito il consolato per pretendere la restituzione di Nizza. Io le ho risposto: No, è la corsa. Sembrava una giustificazione, non lo era. Lei ha detto Ah, quindi lei corre. Ho detto Sì, nelle ultime due settimane mi sono alzato ogni giorno alle sei del mattino per andare a correre i miei 11–12 km sul lungomare di Bari. Conosce Bari? Lei ha detto Bari? Io ho detto A quell’ora il sole picchia già duro, guardi il segno della canottiera, ho l’abbronzatura tutta sgummata. Lei ha detto Sgummata?

Il problema con gli stereotipi è che si formano anche a tua insaputa. Non conoscevo Bari, ma chissà perché mi ero fatto un’idea, ribaltata dalla sorpresa della prima mattina, quando da via Imbriani mi sono lanciato come un elastico fino a Torre Quetta, e anche un poco oltre. A quell’ora i baresi stanno già come i furetti: ci sono i pescatori con la panza di fuori e la pelle di ciuccio, c’è quello che cazza il polpo contro lo scoglio, ci sono le persone sedute sulle panchine che fingono di prendersi il sole ma che sono già sfinite dalla vita, c’è il gruppone che fa yoga credendoci moltissimo (“Noi siamo infinito!”), ci sono quelli che tagliano l’erba attorno allo stabilimento Pane e pomodoro, ci sono gli operatori che puliscono il litorale e ti rimproverano perché intralci il loro lavoro (“Lei qui non può passare!” “MA QUI DOVE?”). E poi ci siamo noi che corriamo.

Tolti quelli che corrono facendo finta (telefonatina all’amante, fumatina alla sigaretta elettronica, mangiatina alla focaccia barese), rimaniamo noi che ci crediamo, esattamente come quelli che fanno yoga. Siamo soli, ma al plurale. Correre a Bari è bello bellissimo perché ci si scambia cenni di intesa hop hop in alto quei talloni, bello bellissimo perché c’è cultura della corsa e quindi cultura di tante altre cose, bello bellissimo perché la gente in macchina non cerca di ucciderti come succede regolarmente in ogni altra grande città italiana (ciao Roma, ciao Palermo, ciao Genova). Correre a Bari entra direttamente sul podio dei posti migliori in cui correre. Ma solo dietro le Buttes Chaumont e il Luxembourg, ho detto alla farmacista, un attimo prima che entrasse un altro cliente. Ci vediamo in autunno, le ho detto. In autunno? Ha risposto lei.

Qualche giorno dopo ero alla cena di un matrimonio in Alta Italia, con l’aria ancora trasognata di chi ricorda i momenti prima della sbornia ma non sa cosa sia successo dopo, e meno male. La mia sbornia si chiama Liberato, il cantante Liberato. La persona con cui stavo parlando ha annuito ma non aveva idea di chi stessi parlando. Come fai a spiegare a qualcuno che non conosce Liberato cosa significhi andare in un locale parigino e ballare e cantare per un’ora e mezzo in quinta fila in una bolgia di cinquanta gradi davanti a tre musicisti mascherati di cui uno potrebbe essere Liberato, o Mina, o Elena Ferrante, o i Daft Punk, o Samuel Peron, o tutti assieme? La faccio breve, ho detto a questa persona, mentre assistevamo con garrulo sgomento alla preparazione del cappon magro da parte dello chef diciamo nuziale: hai presente quel detto su Napoli? Ecco. Vedi un concerto di Liberato e poi mùori. Questa persona ha detto Ma in che senso?

Ho detto Potrei citarti il mash-up Nove Maggio e Me staje appennenn’ amò, potrei citarti il BACCANALE di catartica volgarità e inno alla gioia di Cicerenella (“A te te piace o’ casciòne eh?”), potrei citarti la lunghissima rincorsa verso il ritornello che non arriva mai di Anna (“Io nun so’ cagnato, tengo n’ato tatuaggio/ Baby, please forgive me ”), ma ti dico solo che se ci fosse un modo per mettere pausa alla vita, alle cose, ai momenti, eccone uno: quello in cui i piedi non toccano terra e stai volando assieme a un migliaio di napoletani di suolo e di cuore, l’attimo in cui all’unisono tutta Parigi tende l’orecchio e sente: “Terra mia terra mia / This is where I wanna be / Ma chi sfaccimma si’ / We come from Napoli”.

Sull’aereo ho dormicchiato per mettere in riserva un po’ di energia che peraltro avrei esaurito già all’altezza di Terrasini. All’improvviso mi sono svegliato con un annuncio del capo dell’equipaggio: “Se a bordo c’è un medico o un infermiere si faccia avanti grazie, abbiamo una seria emergenza. Un passeggero ha appena avuto un collasso”. Mentre l’aereo andava nel caos (“Oddio, e cosa è successo?” “Niente, era solo uno svenimento, ma i palermitani sono tragediatori, se non c’è il morto non si sentono a casa”) io ascoltavo in cuffia Bon Iver e pensavo agli ultimi tre anni, alle soglie stagionali superate con gli scossoni, come quando in motorino prendi una buca e quel rumore dintr’allossa te lo senti addosso per sempre.

Ho pensato alla differenza con questo primo anno del dopo: entrare nell’estate come viene viene, senza calcoli, senza tabelline, senza tagli, come in un piano sequenza inverosimile. Un attimo ero davanti all’Mk2 Quai de Seine a conversare con Franz Rogowski dopo la proiezione di Discoboy, quello dopo Franz era sullo schermo del De Seta di Palermo con Adèle Exarchopoulos in Passages, un attimo mi facevo un selfie con Marisa Tomei a Monopoli, quello dopo correvo su Corso Italia a Genova, a rafforzare l’abbronzatura tutta sgummata e il segno della canottiera come n’ato tatuaggio.

Dopo la torta nuziale siamo tornati alla macchina, una cinquecento blu parcheggiata nella curca di un punto imprecisato sulle alture di Genova. Eravamo con due adorabili sconosciuti vestiti lei di rosso lui di chiaro, il bello di andare ai matrimoni spensierati è che un passaggio lo trovi sempre, e chi ti dà un passaggio alla fine dei matrimoni resta amico tuo per sempre. Abbiamo camminato in mezzo alla strada provinciale ridendo, scherzando e invocando Angelo Badalamenti, finché nel buio preceduto solo dai nostri passi non mi sono accorto di alcuni puntini luminosi sul lato sinistro della strada. Mi è venuto un pensiero assurdo, che qualcuno avesse addobbato gli alberi con delle lucine natalizie e le avesse lasciate, così, per chi passava, ma poi ho capito e ho sorriso, ho pensato Vedi a fare mischiella ai matrimoni? Si comincia con l’alcool e il cappon magro e si finisce a prendere lucciole per lanterne. Siamo arrivati alla macchina, il ragazzo vestito di chiaro ha detto Va bene se metto una bella playlist techno?, la ragazza vestita di rosso ha messo in moto, si è voltata e ci ha chiesto Allora, dove andiamo adesso?

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Nico Morabito

Parigi e Palermo. Autore e sceneggiatore. Le Favolose (Venezia 22), La dernière séance (Queer Lion, Venezia 21), Fuori Tutto (best doc italiano, Torino 19)